Anche se ancora in versione digitale, le sfilate Haute Couture primavera estate 2021 non deludono, anzi. Ecco i look avvistati in passerella che ci hanno più colpito – nel bene o nel male.
VALENTINO
Spoiler: BELLISSIMA
Valentino sfila in video senza pubblico, ma siamo convinte che Pierpaolo Piccioli abbia sentito comunque la pioggia di applausi anche via web.
Nell’ambizioso progetto di rinnovamento della maison Valentino, Pierpaolo Piccioli ha voluto inserire una collezione couture più in sintonia con l’attuale periodo storico, che con un ideale regno di fantasia, distruggendo e innovando il significato dell’haute couture oggi.
CODE TEMPORAL il titolo della collezione è un indizio importante sul ragionamento che ha ispirato Piccioli. Da un lato ridefinisce il valore “senza tempo” dell’abito couture, perché slegato dai trend passeggeri, dall’altro si sottolinea la grande qualità, realizzati a mano, su misura e con cura, per durare nel tempo.
Il risultato è una sfilata che rimanda al ready-to-wear se non fosse per alcune creazioni che ci ricordano il glamour da tappeto rosso tipico della couture.
Si nota tantissimo l’enfasi sui tessuti scelti e le texture delle lavorazioni (impeccabili!): meno decori e più sostanza, un po’ come i tempi di oggi.
La forte voglia di evasione che tutti sentiamo (chi non ha già programmato un mega party quando il covid sarà solo un brutto ricordo??) viene ripresa sia nell’uso dei colori, vividi e brillanti, ma anche nella scelta delle calzature: vertiginose, impossibili e ironiche.
Altra cosa da notare è il debutto dell’uomo nella couture: scelta interessante che sposa l’idea che la moda debba abbracciare tutti senza barriere di genere.
Ci siamo innamorate perdutamente dei look di Diba Maty e del trucco di Pat McGrath: le maschere glitterose sono un pochino sinistre, ma il messaggio era “evidenziare la persona che porta l’abito”.
Il video della sfilata presentava a mo’ di sottotitoli la descrizione tecnica di ciascun capo: sdoganiamo questa cosa, please. Fantastica.
CHRISTIAN DIOR
Maria Grazia Chiuri deve aver visto Bridgerton…e qualche vecchio spettacolo del Cirque du Soleil.
La nuova (?) collezione per Dior è (l’ennesimo) un tuffo in un passato lontanissimo e ideale, dove c’è spazio per un po’ di superstizione e magia. Contrariamente alla battuta di prima, MGC si è lasciata ispirare dal mondo dei tarocchi e della superstizione, due elementi legati alla sfera privata di Monsieur Dior e ripresi dalla designer già in alcune passate collezioni. In linea con la precedente collezione couture, anche qui troviamo un fashion film ad introdurre le suggestioni degli abiti. La regia è sempre di Matteo Garzone (che ha diretto il fashion film della precedente collezione couture), mentre il femminismo sbandierato dal brand resta sempre al sicuro nei confini del colorismo.
Potremmo scavare per ore alla ricerca della miriade di simbolismi coinvolti nella collezione, ma ciò che vale la pena notare è che MGC sia così intenta a guardare al passato e alle stelle da non vedere il presente e nemmeno immaginare il futuro. Secondo noi si può sognare anche con un piede nel presente, che dite?
SCHIAPARELLI
Se c’è qualcuno che ha trovato un buon equilibrio tra la rielaborazione degli archivi storici e la modernità è Daniel Roseberry. La sua seconda collezione couture per Schiaparelli ha lasciato il segno: letteralmente.
Star indiscussa della collezione è il bustier modellato per esasperare un addome super allenato e forse anche l’ossessione tutta moderna per un corpo inarrivabile: Roseberry lo presenta in diverse soluzioni, ispirate alle creazioni dello scultore-gioielliere Claude Lalanne (che ispirò tanto Elsa Schiaparelli quanto Yves Saint Laurent).
Due look che ci hanno colpito, in equilibrio precario tra il camp e l’inquietante: protesi mammaria con tanto di bebè / abito porta corpo umano.
Iconico il tailleur che riprende i cassetti di una scrivania con il lucchetto simbolo della maison, che si rifà ad uno storico tailleur di Elsa Schiaparelli del 1936, ispirato a sua volta al lavoro del suo amico Dalì.
FENDI
«Kim Jones è un grande talento e da quando è entrato a far parte della nostra realtà ha continuamente dimostrato la sua capacità di adattarsi ai codici e al patrimonio delle case LVMH, rivisitando con grande modernità e audacia. In Fendi, sono convinto che la sua visione e passione contribuiranno fortemente al successo delle collezioni femminili». Bernard Arnault, proprietario del gruppo LVMH, alla nomina di Kim Jones come direttore creativo delle collezioni donna per FENDI.
Chissà se Bernard si sarà morso la lingua dopo il debutto della prima collezione couture firmata da Kim Jones…
Nel caso ve lo stiate chiedendo, sì, non è stato un debutto memorabile. Nemmeno disastroso, solo un po’…brutto. Essere all’altezza dell’eredità di Karl Lagerfeld e tenere il passo con le affascinanti creazioni di Silvia Venturini Fendi era una sfida già ardua sulla carta, per un designer che si è fatto amare da pubblico e critica per le sue collezioni uomo. Tuttavia, come già avevamo scritto, le aspettative generali su Kim Jones erano letteralmente alle stelle. Questa collezione couture ha fallito perché Kim Jones ha cercato di fondere troppe idee in contrasto tra loro. Da un lato la voglia di omaggiare il lavoro di Karl Lagerfeld, dall’altro il dovere di rendere omaggio alle grandi donne della famiglia Fendi. A questi doveri/desideri, Kim Jones affianca una ricerca più personale che guarda alla sua infanzia nella campagna del Sussex, in Inghilterra, proprio dove ha vissuto la scrittrice Virginia Woolf; dall’apprezzamento per la scrittrice deriva un’ossessione per il movimento artistico inglese Bloomsbury Set (nato nel 1905). In tutto questo enorme calderone di suggestioni, a fare da perno c’è l’Orlando di Virginia Woolf, il romanzo pubblicato nel 1925, dove tra mille avventure, assistiamo alla trasformazione da uomo a donna del protagonista.
Di carne al fuoco ce n’è fin troppa per una collezione di solo 19 capi…e il risultato ci dà ragione.
Gli abiti sono confusi, abbozzati…e anche dove si nota un grande lavoro di decoro, il risultato finale è piatto, senza magia. La scelta di un cast “stellato” è stata poi un’arma a doppio taglio: Naomi Campbell avvolta in una tunica informe che vorrebbe omaggiare i marmi di Benini; Kate Moss in un datato abito da “mamma della sposa”, che sfila dietro alla figlia Lila avvolta in abito trasparente costellato di perle; e ancora Cara Delevigne, Bella Hadid, Christy Turlington e una irriconoscibile Demi Moore (sos filler?). Scelta obbligata per distogliere l’attenzione dagli abiti?
IRIS VAN HERPEN
Tornare alle origini e farlo bene. Lo stilista olandese con questa collezione chiamata Roots of rebirth si propone di tornare alla natura e più precisamente ad uno dei componenti volendo meno fashion della natura: i funghi. Ispirandosi ad una ricerca del biologo Merlin Sheldrake che suggerisce che la flora comunichi attraverso un network sotterraneo chiamato “wood wide web”, la passerella rappresenta bene l’oscurità di un mondo precluso ai nostri occhi.
Un mondo da cui si librano esseri viventi interconnessi tra loro da radici ed eteree spore, ricchi di sfumature terrose ma anche di colori vividi. La maestria della stilista olandese sta nell’unire due mondi apparentemente distanti come moda e tecnologia: pensate che per queste creazioni è stata utilizzata perfino una stampante 3D.
Nota interessante: per questa collezione la Van Herpen ha collaborato con “Parley for the Oceans” per l’utilizzo di un tessuto ottenuto da rifiuti raccolti dai nostri mari – per la serie anche la couture può pensare al sostenibile.